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La rivolta degli studenti e delle studentesse del Politecnico contro il regime oppressivo della Grecia

Oggi vogliamo fare con voi un tuffo nel passato, precisamente nel 1973, quando il Politecnico di Atene si rivolta fortemente alla dittatura dei colonnelli, nota anche come la Giunta, un regime dittatoriale di stampo fasciata che dal 1967 al 1974 ha terrorizzato la Grecia. Dopo un colpo di Stato ha soppresso il governo per operare in maniera subdola contro ogni tipo di libertà politica e personale. 

 

Gli eventi di cui ci occupiamo oggi cominciano il 14 novembre e finiscono il 17, quando un carro armato sfonda l’entrata del Politecnico provocando svariati feriti e moltissimi morti.

 

 

Nel periodo di totale controllo della Giunta militare, si assiste ad una serie di proibizioni: una delle tante è la negazione di ogni tipo di associazione studentesca e delle elezioni dei consigli universitari. Lo stesso anno un gruppo di universitari occupa la facoltà di Giurisprudenza di Atene, occupazione che termina presto con l’intervento delle forze armate a sedare la rivolta. È il 14 novembre e gli studenti e le studentesse del Politecnico indicono uno sciopero, occupano così la facoltà e prendono possesso delle apparecchiature per dar vita ad una radio dissidente che trasmette un messaggio chiaro: “Qui il Politecnico! Popolo greco, il Politecnico è la bandiera della vostra sofferenza e della nostra nostra sofferenza contro la dittatura e per la democrazia”. L’occupazione abusiva dura per tre giorni, quando un enorme carro armato irrompe all’interno del Politecnico e condanna chi è presente ad una notte di scontri; il governo spegne la luce all’intera città. Una metafora quella di “spegnere le luci” che soffoca la ragione, la cultura e la libertà personale di essere studenti e studentesse. Un avvenimento che ci deve far riflettere e domandare: cosa sarebbe un paese senza le sue università? Senza quei luoghi che sono la culla del sapere?

 

 

Torniamo ad Atene, perché l’orrore non è finito. Gli scontri tolgono la vita a 24 persone che stavano lottando per la libertà del loro paese, ormai in mano ad una dittatura sempre più forte, una delle vittime aveva appena 5 anni. Oggi l’avvenimento si ricorda con sentimento e fa parte della memoria collettiva di un paese che è la culla della civiltà ellenica, ma che al suo interno è divelto. È il 17 novembre quando la Giunta militare frena le rivendicazioni degli studenti e delle studentesse, non è una data importante solo per la Grecia; lo è per il mondo intero perché è il simbolo della lotta attiva delle università. Proprio quel giorno, ma nel 1939, vengono uccisi 9 tra studenti e professori, catturati dopo le protestare contro l’occupazione tedesca e le oppressioni perpetuate dal regime nell’ex Cecoslovacchia. Il 28 ottobre viene prima ferito Jan Opletal, uno studente che morirà l’11 novembre, poi 1200 studenti e studentesse in seguito vengono arrestati e deportati in un campo di concentramento, infine, il 17 novembre vengono assassinati, senza processo, 9 dei ragazzi e dei professori presenti alla manifestazione di Praga. Ne parleremo più approfonditamente nell’articolo che uscirà martedì prossimo, sempre sul nostro blog.

Noi vogliamo ricordare quei momenti e sostegno di una tesi: un mondo senza università non può esistere, un paese senza il suo sapere non può vivere. E ancora una volta capiamo quanto sia fondamentale il diritto, solo oggi inalienabile, allo studio e all’espressione personale, svincolata da ogni oppressore e regime totalitario. 

 

Il Post | Wikipedia

 

Ylenia Covalea


 

 

La eco di Primo Levi deve risuonare ancora

Cosa significa non poter studiare, affermarsi, emanciparsi? Ora viviamo un particolare momento storico fatto di lezioni in remoto e aule ad accesso limitato; il diritto allo studio è (quasi) sempre riconosciuto, ma durante il fascismo era negato.

Abbiamo parlato di Erasmo da Rotterdam, Antonio Gramsci, Rita Levi Montalcini. Cosa accomuna questi personaggi straordinari? Sono tutti fiori all’occhiello dell’Università degli Studi di Torino. Oggi parliamo di Primo Levi, la sua storia è peculiare perché si laurea nel bel mezzo dell’entrata in vigore delle leggi razziali in Italia, cosa significava essere ebreo a Torino durante il fascismo?

Continua così la nostra rassegna alla scoperta della storia dell’Ateneo torinese, tra seicento anni di storia e date importanti. Primo Levi si iscrive al Liceo classico Massimo d’Azeglio, rinomato per aver aver ospitato tra le cattedre svariati professori fortemente antifascisti prima dell’epurazione fatta dalle leggi razziali. Un fatto interessante è la conoscenza di Cesare Pavese; Primo viene a contatto con il celebre scrittore proprio al d’Azeglio, Pavese infatti è il suo professore d’italiano in prima ginnasio. Si iscrive alla facoltà di Chimica l’anno prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali, ma Primo Levi riesce comunque a concludere i suoi studi con lode in Chimica, discutendo la tesi nel 1941. Il suo diploma di laurea riporta la svilente precisazione: “di razza ebraica”. Questo lo porta a dire si essersi impegnato duramente nello studio perché l’ambiente universitario torinese fascista lo faceva sentire uno straniero, uno studente diverso.

L’anno dopo, a Milano, viene a contatto con gli ambienti antifascisti militanti ed entra a far parte del Partito d’Azione clandestino, lui che ha vissuto con un padre costretto ad iscriversi al partito, lui che era stato prima balilla e poi avanguardista, “coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione”, dirà poi in Se questo è un uomo. 

L’8 settembre il governo di Badoglio annuncia l’armistizio, ma la guerra procede, infatti di lì a breve Levi viene prima portato nel campo di prigionia Carpi-Fossoli e poi ad Auschwitz, in Polonia, dopo aver fatto parte di un gruppo partigiano in Val d’Aosta. 

Dopo la liberazione torna a Torino, lavora come chimico, incontra Lucia Morpurgo, quella che sarà la sua futura moglie, e scrive. Un chimico che scrive? Ha molto da raccontare, decide così di raccogliere quei pensieri e quelle vicende che lo stanno tormentando: nasce Se questo è un uomo (1944-1947). Lo presenta alla casa editrice Einaudi che però lo rigetta in prima istanza, pubblicato quindi in tiratura limitata da De Silva; il libro cardine sulle atroci testimonianze dei lager è un flop. È il 1956 quando Se questo è un uomo viene riproposto e quindi pubblicato dall’Einaudi, che non smetterà mai di ristamparlo. 

Italo Calvino definisce il libro come “pagine di autentifica potenza narrativa” (Italo Calvino in Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 2005), Primo non smette di scrivere e ricevere consensi. Vince il Premio Strega nel ’79 con La chiave a stella. 

Un chimico che scrive, racconta, analizza. Perché la sua formazione universitaria in campo scientifico è così importate? Lo si legge tra le sue pagine: il pensiero legato all’empirismo si riflette nei testamenti di Primo Levi, non ha mai cercato di impressionare, non ha mai scritto per i lettori, lo ha fatto per sé stesso. Un atto di catarsi pura ed essenziale, un esempio di come la scrittura sia liberazione della mente. Un atto liberatorio da quelle vicende che lo inseguono, impossibili da rilegare tra le pagine di un libro e chiudere per sempre, ma forse sussurrate a chi sa leggere tra le righe. 

 

Parole che hanno una forte eco.
Da Levi c’è molto da imparare.

 

 

(Fonte: Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 2005.)

Ylenia Covalea

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