artribune.com – La GAM di Torino e il Castello di Rivoli ospitano una mostra poderosa, che mette in luce il potenziale del colore attraverso opere e artisti di epoche diverse. Fra emozione, spiritualità e dinamiche contemporanee.

Lemozione dei COLORI nellarte è una mostra che possiede i numeri di una biennale e che mira a raccontare principalmente, ma non solo, la pittura degli ultimi 150 anni attraverso il medium del colore. Un percorso storico e geografico che insegue le ricerche fatte da 150 artisti appartenuti a luoghi ed epoche diversi attraverso 400 opere. Si va dai grandi maestri di fine Ottocento alle opere iconiche di artisti concettuali. Presenti molti artisti italiani, prestiti d’importanti istituzioni internazionali e capolavori provenienti dalle collezioni di Gam e Castello di Rivoli, dove la mostra si dipana unificando, per la prima volta, due istituzioni fino a oggi rimaste autonome e votate a fare sistema.

UN MONDO IN BIANCO E NERO

Come sarebbe la storia umana se, invece dei coni, la retina del nostro occhio potesse affidarsi soltanto ai bastoncelli per vedere il mondo circostante? Un’invisibile differenza geometrica avrebbe potuto cambiare tutto perché, in tal caso, la realtà ci apparirebbe da sempre in bianco e nero. Come in un libro di Saramago, saremmo tutti affetti da acromatopsia, la forma di daltonismo congenito più grave e per la quale chi ne è affetto vede il mondo in una scala di grigi che noi cromo-vedenti non sospettiamo. Non è difficile capire come sarebbe se osserviamo la storia della fotografia, quel suo nascere in bianco e nero e restare se stessa fino a che il colore non la contagia e allora anche lei, non a caso forse, compie un ingresso trionfale nel mondo dell’arte. Prima si chiama fotografia d’autore, ma quel suo essere incolore, esangue, mono-tonale la scollega dal mondo, la raffredda a tal punto da non poter assumere a tutti gli effetti lo statuto di opera d’arte. Vivere in bianco e nero (si pensi anche al cinema o alla tv prima del colore) sarebbe come vivere nell’universo di Cartier-Bresson, dentro un mondo in cui ogni singola cosa, per quanto spettacolare e plastica, è deprivata del proprio aspetto vitale.

LINGUA COLORE

Una percezione che escluda i colori sarebbe capace di eludere anche le emozioni? Guardando questa mostra, progettata da Carolyn Christov Bakargiev già direttrice di documenta 13 e della Biennale di Sydney, parrebbe che attraverso i colori non soltanto accediamo alla pittura nella sua integrità ma collezioniamo una serie inesauribile di stati emotivi che, in parte, o del tutto, possono giustificare l’esistenza della pittura in quanto musica dei colori.
La mostra appare come una galleria di melodie e armonie da cui evincere i differenti modi d’intendere il colore e di gestirne la ricchezza sensibile. Il colore non soltanto ci apre un mondo, quello del reale nella sua complessità e ricchezza, ma nella pittura ci permette di andare al di là del reale concreto per accedere alle emozioni in modo immediato così come succede con la musica. Prima di essere altro, la vista è una forma di tatto. L’occhio tocca e distanzia qualsiasi cosa, ma nella pittura esso viene toccato e ogni volta affetto emotivamente. In mostra, la paletta delle emozioni è ampia: si va da quelle tragiche, provate ed espresse da un Mark Rothko o un Nicolas De Staël (senza dimenticare un Car Crash diAndy Warhol che è arancione come soltanto la morte tragica sa essere), a quelle più impalpabili di un James Turrell che espone un ambiente vivificato e pulsante di luce cangiante capace di arrivare all’essenza del colore.

KANDINSKY E IL COLORE SPIRITUALE

Sempre alla Gam, vi sono molti altri lavori imprescindibili. In alcune delle tele dell’irrinunciabile Vassily Kandinsky si avverte una fine e un inizio: la fine di un atteggiamento analitico e matematizzante verso il colore, figlio di una cultura positivista di metà Ottocento e debitrice di studi fatti sul colore da Isaac Newton, che scompone la luce in colori. Già Goethe nella sua Teoria dei colori, scritta nel 1810, cercava di dare una dignità percettiva, psicologica ed emotiva ai colori. Nel 1799 aveva scritto con Friedrich SchillerTemperamenten Rose, in cui i colori venivano abbinati ai quattro caratteri fondamentali dell’uomo (collerico, flemmatico, sanguigno e melanconico) da cui discendono modelli psicologici (tiranni, eroi, avventurieri; edonisti, amanti, poeti; oratori, storici, docenti; filosofi, pedanti, governanti).
Ma se Goethe ama considerarsi innanzitutto scienziato, Kandinsky si sente invece più musicista e dichiara di voler fare in pittura quel che Arnold Schoenberg ha fatto in musica: l’amicizia tra i due sarà di quelle che scolpiscono un secolo. Oltre a inventare l’astrazione, e forse proprio a causa di ciò, Kandinsky può sostenere una teoria del colore incentrata sull’effetto spirituale. Ogni colore possiede e produce un “suono interiore” ed è capace di una direzione e di un movimento che lo dispone, in un solo colpo, sia sulla tela sia nella nostra anima.
Con Kandinsky si apre una nuova era del colore, un suo utilizzo purista e più consapevole che comprende William Turner, ancora debitore di Goethe e astrattista ante litteram, e giunge fino ai quadrati di Josef Albers e a tutta la pittura monocromatica che, come scrivono i curatori della mostra, si occupa “del puro respiro del colore”.
Se nei primi anni del Novecento i Fauves usano il colore come strumento eminente della loro ribellione contro l’accademia, Kandinsky apre il sentiero spirituale che è forse il più indefinito ma proprio per questo anche il più prolifico in termini di suggestioni. Su tale sentiero si pongono anche le ricerche di Paul Klee, che insegna per un decennio pittura e teoria del colore al Bauhaus e di cui la mostra espone i taccuini provenienti dal Paul Klee Zentrum di Berna; le ricerche teosofiche sul colore di Annie Besant, costretta a dipingere le luci di altri mondi usando i “colori ottusi della terra”; il simbolismo esoterico di M.K. Čiurlionis, personaggio paradigmatico in quanto compositore eccelso ma transfugo verso la pittura nella quale trova le visioni per dire quel mondo fantastico evocato in musica; non ultimi i disegni dei seguaci dell’Hindu Tantra, risalenti al XVIII secolo e suggestivamente in linea con le intuizioni di fondo kandinskyane.

NON SOLTANTO EMOZIONI

Il mondo nel quale viviamo è sempre più veloce, emotivo e superficiale. E colorato. Il colore è usato come strumento di seduzione e di meraviglia: stimola l’acquisto. Nei packaging, così come nei nuovi prodotti tecnologici dalle risoluzioni sempre più sorprendenti, il colore possiede un ruolo primario di seduzione. Forse anche per questa imponente e progressiva “emozionalizzazione” del mondo, la seconda parte del Novecento e le esperienze artistiche attuali sembrano lasciare da parte il colore come strumento emozionale per concentrarsi su altri tipi di approccio. Il concettualismo di Laurence Wiener e di Robert Barry, autore della monumentale installazione One Billion Colored Dots, offrono buoni esempi, mentre il pantone “messo in opera” da Damien Hirst riflette sul poderoso sforzo analitico e sintetico della nostra cultura, intenta a decodificare quell’eterno continuum offerto dalla realtà, quel magma nel quale il nostro cervello ha imparato a navigare spezzettando il tutto in micro-percezioni in grado di darci il senso delle cose. Nell’interruzione del flusso si fonda il controllo che ne abbiamo e anche la possibilità di un linguaggio comune che possiamo costruire, essendo il pantone proprio la decodificazione numerata delle differenti tinte possibili, ognuna delle quali scomposta nei suoi elementi costitutivi e quindi in grado di essere ripetuta in ogni latitudine e longitudine del globo. Ma ciò vale soltanto per le tinte sintetiche, mentre la storia dell’arte si fonda, più alchemicamente, su colori tratti da insetti, fiori, piante e minerali di ogni genere.
Anche la cultura psichedelica del colore, citata in mostra attraverso l’installazione di Jim Lambie e di alcuni film e fotografie (che restano parte minoritaria rispetto alla pittura), sembra dichiarare la fine di un’era e la possibilità di dare al colore nuove funzioni. Come quella politica, ad esempio, evidenziata dalle opere di David Hammons, una bandiera che ripensa i colori dell’Africa, o di Asli Cavusoglu, con la sua installazione di disegni fatti con il “Rosso ottomano” prodotto attraverso una ricetta armena sostituita dal rosso della bandiera turca. Nell’arte del secondo Novecento, anche l’esclusività della pittura viene meno e il colore si esibisce sui tessuti (come quelli del Leone d’oro della Biennale di Venezia Franz E. Walther), sulle plastiche (debordanti quelle di Tony Cragg, più ironiche quelle di Pino Pascali) o nelle luci (Olafur Eliasson).
Si può sostenere che la storia dell’arte è una storia di palette, ogni artista ha avuto la propria e con essa ci ha aperto un mondo, il suo, che poteva avere soltanto quei colori lì. Che si tratti dell’incarnato esangue del Cristo morto di Mantegna o della luce aurorale dell’Immacolata concezione del Tiepolo, ogni pennellata d’artista è sempre stata e sarà una scelta di colore e con essa una dichiarazione d’intenti riguardo a ogni aspetto del reale: emozioni incluse.