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Connessi e soli, come nella New York di Olivia Laing

 

Viviamo in un’era dedita alla digitalizzazione del tutto; dal sapere alle relazioni, ora anche gli incontri sono online. Infinite e noiosissime riunioni su zoom, video-lezioni dall’audio intermittente, feste di compleanno senza tramezzini in videochiamata; la cosiddetta generazione z è cresciuta bombardata da informazioni e immagini che l’hanno resa sempre più ansiosa e dipendente dallo schermo illuminato del computer o dello smartphone.

Siamo ormai abituati a convivere con la costante idea di “esserci persi qualcosa” in quei pochi istanti di cessata connessione, quando abbiamo deciso per necessità di “abbassare la guardia”. Qual è la prima cosa che fai appena ti svegli la mattina? Molto probabilmente, ancora assonnato, afferri il cellulare per controllare le notifiche, i like sui social, i messaggi degli amici e le mail dei colleghi, una volta svolto questo rituale mattutino inizia davvero la tua giornata. Ci confrontiamo giornalmente con il timore di rimanere indietro perché ci viene richiesta un’attenzione costante, il tanto decantato multitasking è stressante e non sempre riesce ad appagarci. Ma la continua connessione digitale ci aiuta a sentirci meno soli? No, spesso è il contrario. Ci capita di passare intere giornate al pc svolgendo smartworking e chattando con gli amici, ma arriviamo a fine giornata con una specie di mancanza, un vuoto, una sensazione di frustrazione e affanno, come se avessimo corso per intero la maratona di New York senza esserci allenati. Sono un po’ le emozioni che Olivia Laing descrive nel suo Città sola (Il Saggiatore); la grande New York è “fatta di buio e silenzio: un’onirica capitale della solitudine” che vede transitare ogni giorno milioni di passeggeri soli, tristi e deprivati. Perché si, a New York, una delle metropoli più grandi e vive del mondo, ci si sente alienati, si è invisibili.

 

 

La connessione digitale non sempre riesce ad avvicinarci, non basta a placare la mancanza del contatto, del dialogo faccia a faccia e dello scambio di opinioni ed esperienze. Capiamoci, sono tempi difficili per tutti, è meglio mantenere le distanze e parlare da casa perché non è più sicuro conoscere qualcuno al di fuori dello spazio protetto della nostra dimora, la piccola safe-zone che in questi mesi di reclusione ci siamo creati, l’unica che può preservarci in questi tempi di pandemia globale.

Mettiamo la modalità aereo telefono, spegniamo il pc e respiriamo. Torniamo a connetterci con noi stessi, con le nostre passioni e con cosa riteniamo davvero più importante, che sia un gesto semplice come prepararci una tazza di tè e berla alla finestra, oppure leggere finalmente libro che abbiamo sul comodino da settimane. Dedichiamo del tempo alla self care e disconnettiamoci.

Passiamo ad analizzare qualche dato significativo: negli ultimi 25 anni, il numero degli adolescenti affetti da depressione è salito del 70%, sintomo di una correzione evidente tra sviluppo tecnologico ed incidenza di disturbi d’ansia e depressione tra i più giovani. Prendi un gruppo di ragazzi e ragazze di 24 anni e osservali per per 15 minuti: “sessanta ragazzi – Roberto Truzoli del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche Luigi Sacco e Michela Romano, psicologa e psicoterapeuta che in Galles ha portato avanti svariati progetti sulla dipendenza da internet – sono stati inizialmente sottoposti a una batteria di test per misurare i livelli di dipendenza dal web, l’umore, l’ansia, la depressione, la schizotipia e i tratti di autismo”. Al gruppo è stato poi chiesto di navigare su internet, al termine è stato testato il loro umore; il l risultato è stato duplice, vediamo perché: “nei ragazzi dipendenti da Internet si è vista una marcata riduzione del tono dell’umore subito dopo la navigazione rispetto al gruppo di giovani non dipendenti, che si è tradotta nel desiderio di recuperare un umore accettabile utilizzando nuovamente il mezzo che è stato causa del loro malessere”.

 

 

Se vi sentiti spesso sopraffatti dopo aver trascorso in internet troppe ore, non è semplicemente un caso, infatti la scienza ha fatto emergere che “la dipendenza da internet può rivelare un disagio psicologico di fondo, anche pregresso”. Quante volti accedi ad Instagram, Facebook e TikTok per pura noia, e ti ritrovi due ore dopo a guardare l’ennesimo video di un simpatico gattino che usa le zampatte per aprire una scatola di pelati? Troppe, se ti senti ansioso o nervoso, impiega quel tempo per altro, non deve necessariamente essere un’attività produttiva, ma datti anche la possibilità di annoiarti senza sentirti in colpa. Prova, ti sentirai meglio. Oggi, più che mai, stiamo capendo quanto sia importante prendersi cura della propria salute mentale; la dipendenza da internet è reale, infatti nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5) viene inserita nelle patologie di dipendenza da “non sostanze“. Se ti servisse aiuto non esitare a chiederlo, consulta un esperto oppure contatta uno dei tanti numeri verdi: 

800 274 274Progetto Itaca

800 833 833 — Sportello d’ascolto per il Covid 19

800 91 3880Sportello ISIDAP — Istituto Specialistico Italiano Disturbi da Attacchi di Panico

366.9358518 — Servizio dell’ASL TO4 per l’ascolto psicologico telefonico rivolto ai cittadini adulti

 

Ylenia Covalea

 

Dpcm e università: la difficile situazione delle università italiane

 

Abbiamo già visto come la pandemia non sia riuscita a frenare l’alto numero di immatricolazioni all’università, gli atenei si sono quindi adoperati ad accogliere studenti e studentesse in sicurezza: lezioni in presenza, didattica a distanza e ingressi contingentati. Per contrastare la diffusione del contagio, le autorità regionali, locali o sanitarie, potranno valutare le situazioni particolarmente rischiose e per questo adottare forme differenti per continuare a garantire la sicurezza nello svolgimento dell’attività didattica per corpo docente, personale A.T.A. e studenti.

 

 

Ci dobbiamo quindi aspettare forme differenti di didattica in base all’andamento del quadro epidemiologico e alle esigenze formative. L’Accademia Albertina di Torino, per esempio, ha predisposto alcune lezioni in presenza che necessitano di uno scambio tra docenti e studenti. Proprio per le AFAM e le università si è fatta particolare attenzione riguardo ad allievi e allieve con disabilità, che potranno svolgere, se la situazione lo dovesse richiedere, le attività formative anche da casa. Il Nuovo Dpcm chiarisce anche lo svolgimento di tirocini delle professioni sanitarie e dei corsi di formazione specialistica, essi potranno proseguire, dove necessario, in modalità non in presenza.

C’è anche da contare la difficile organizzazione del trasporto pubblico verso scuole e università, come già evidenziato dall’Indagine nazionale sulla mobilità casa-università al tempo del Covid-19 realizzata dalla Rete delle Università per lo Sviluppo Sostenibile, il trasporto sarà il settore che più pagherà le conseguenze di questa pandemia, gli studenti e le studentesse che si recheranno a lezione preferiranno forme alternative di spostamento: l’automobile, il monopattino o la bici.

 

 

La situazione è in continuo capovolgimento, non ci resta che attendere le risposte delle università, specie in materia di tirocini e laboratori che necessitano di essere svolti in presenza, dove spesso nelle aule non è possibile mantenere una stanza adeguata per evitare il contagio. Ancora una volte le università devono far fronte ad una situazione difficile e precaria, generata da anni di continui tagli ad infrastrutture e fondi dedicati alla formazione. 

Ylenia Covalea

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Terra di tesori artistici e molteplici contraddizioni, si può ancora studiare arte e farne un lavoro?

 

Siamo fieri del nostro patrimonio, della cultura millenaria che difendiamo a spada tratta e di quell’arte prodotta dai più grandi artisti che il nostro paese potesse partorire, ma in Italia con l’arte non si può vivere. Perché è così difficile farlo in un paese che può vantare ben 55 siti riconosciti come patrimonio mondiale UNESCO? Uno degli ultimi è un orgoglio piemontese: Ivrea, la sede dell’Olivetti e città industriale del XX secolo. 

Ma nel primo paese al mondo per presenza di siti di interesse mondiale, com’è possibile che i professionisti e le professioniste dell’arte non abbiano diritti? Una laurea conseguita all’interno di un’accademia di belle arti è solo equipollente ad una regolarmente riconosciuta e conseguita all’università. Benvenuti nel mondo delle AFAMAlta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica, istituite solo nel 1999, dove i laboratori sono inagibili e i fondi non arrivano mai. La maggior parte del corpo docente non ha il posto fisso, infatti di anno in anno la loro cattedra è vacante: i contratti sono i famigerati co.co.co, che spesso dati i ritardi e i continui rinvii del MIUR, non possono permettere una certa stabilità negli insegnamenti, questo si riversa inesorabilmente su studenti e studentesse che spesso sono costretti a cambiare docente ad anno scolastico già avviato. Da un lato ci sono i lavoratori precari delle AFAM che non hanno né congedi parentali né giorni di malattia, dall’altro studentesse e studenti di tutta Italia che sono ancora ben lontani dall’essere considerati universitari e dall’avere gli stessi diritti.

 

 

Dal sito del Ministero dell’Istruzione, che non sta sicuramente vivendo mesi semplici, leggiamo che “Il Ministero contribuisce annualmente al sostegno finanziario delle Istituzioni AFAM, attraverso diverse linee di finanziamento”, poi si fa riferimento ai vari contributi per migliorare la didattica, fondi per supplenze e attrezzature. Ma gli studenti e le studentesse stanno ancora attendendo una risposta dal Ministero che, ancora una volta, ritarda nell’approvazione dei nuovi piani di studio: l’anno accademico è alle porte e l’incertezza è tanta. Con il decreto ministeriale del 14 luglio 2020 emanato dal Ministro dell’Università e della Ricerca, sono stati delineati i criteri di ripartizione del “Fondo per le esigenze emergenziali del sistema dell’Università, delle istituzioni di alta formazione artistica musicale e coreutica e degli enti di ricerca”, che ha destinato 9 milioni di euro per le AFAM pubbliche e 1 milione per quelle private. 

Le accademie di belle arti e i conservatori erano istituti superiori alla pari delle università di Architettura, ma il regime fascista le fece diventare istituzioni scolastiche, iniziò così un lungo periodo di declassamento. Solo alla fine degli anni Novanta venne concessa l’equipollenza con le università e la supervisione del Ministero dell’Università e della Ricerca, una storia difficile già in partenza. Anche il riconoscimento in ambito universitario dei crediti accademici ottenuti, i cosiddetti CFA, è un procedimento complesso, spesso per le università questi non valgono.

Si pensa spesso che l’arte non possa che essere un passatempo, un hobby, ma per moltissimi professionisti è un lavoro che deve essere riconosciuto alla pari di qualsiasi altra professione. Non sappiamo valorizzare le nostre bellezze, non siamo in grado di gestire i fondi dedicati all’arte e alla cultura, forse perché sono ambiti permeati dal pregiudizio che possano essere economicamente poco fruttuosi, ma non è così; l’arte sta virando verso una digitalizzazione impressionante. Le Art Industries esistono e rendono milioni di euro: realtà aumentata, apparecchiature tecnologiche per un experience museale in sicurezza, tecnologie 3D. I modelli espressivi si stanno adeguando ad ogni situazione, ma sembra che il mercato dell’arte debba rimanere ancora prerogativa di pochi eletti. 

 

 

Bisognerebbe partire dal riconoscimento dei diritti fondamentali per studenti, studentesse e corpo docente, poi si imparerà a valorizzare e curare il patrimonio artistico del nostro Paese, esso ha bisogno laureati e laureate nelle venti accademie italiane che sappiano curare quello che per anni è stato lasciato in balia del degrado. Uno stato che dedica solo il 4,1% del proprio PIL all’istruzione, non potrà mai reputare l’istruzione un campo essenziale per la crescita e la formazione di menti artistiche in grado di migliorare l’Italia.

L’arte in Italia non è una priorità.

Fonte: The Vision

 

Ylenia Covalea

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Il Politecnico si muove verso la conoscenza e l’analisi dei cambiamenti climatici che stanno affliggendo il nostro pianeta inaugurano il MovingLab.

 

MovingLab è il nuovo laboratorio mobile allestito nell’ambito del progetto cambiamenti_climatici@polito del Dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture (DIATI). Il laboratorio ha già girato l’Italia percorrendo oltre 3.000 km, dal Gran Sasso alla Puglia. È attrezzato con pannelli fotovoltaici per garantire una sufficiente autonomia nelle attività di analisi dei dati raccolti anche durante lunghe trasferte in ambienti remoti.

 

Perché è importate agire concretamente e occuparsi dei cambiamenti climatici, oggi più che mai?

 

È necessario limitare il riscaldamento globale a quota 1,5°C azzerando così le emissioni di CO2. Entro il 2050 le emissioni di gas serra, di natura antropica e naturale, dovranno essere ridotte della metà rispetto al 1990, per arrivare alla “neutralità carbonica” intorno alla fine del 2000. L’Unione Europea ha perciò adottato normative volte ad incentivare l’uso di energie rinnovabili come quella eolica, solare, idroelettrica e da biomassa.

 

 

Qual è lo scenario che si andrà man mano a creare se i livelli di emissioni non diminuiranno? 

 

Il livello del mare si innalzerà, le ondate di calore saranno sempre più frequenti, così come le delle alluvioni e l’aumento di tempeste e uragani, anche in quelle parti del mondo che prima non erano soggette a questi cataclismi.

Il riscaldamento globale va fermato, altrimenti avrà effetti catastrofici. L’impatto sarà devastante su milioni di persone e specie animali, in ogni area del mondo. Ogni singolo comportamento è importante, ognun* di noi può e deve agire in modo consapevole. Basti pensare all’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi di bovini volti a nutrire l’essere umano: ogni animale rilascia nell’atmosfera gas serra equivalenti a due tonnellate di CO2 l’anno; è la principale causa del riscaldamento globale, i bovini al mondo sono più di un miliardo. 

Bisogna agire concretamente perché di pianeta ne abbiamo uno solo e occorre salvaguardarlo finché ci è ancora concesso. 

Ylenia Covalea

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Quest’anno chi ha sostenuto il test per le specializzazioni in Medicina non avrà vita semplice: il MIUR blocca la graduatoria, ma cos’è successo?

 

Troppi i ricorsi al TAR e il Ministero dell’Istruzione decide di sospendere la graduatoria che conta ben 22 mila futuri specializzandi e specializzande in medicina, che nel nostro paese mancano. 

Il Ministero aveva predisposto un numero più alto di borse di studio per incrementare le iscrizioni alle specializzazioni, da 8.776 a 14.395, ma le limitazioni imposte erano molte:

  • Gli iscritti e le iscritte al secondo e terzo anno del corso di Medicina Generale non potevano concorrere
  • I punteggi del Curriculum Vitae non valevano per chi fosse già in possesso di uno stipendio da specializzando/a o corsista oppure di un diploma di specializzazione per medici con contratto in una struttura sanitaria.

Molte sono state le perplessità, per questo il TAR del Lazio ha accolto i ricorsi mettendo quindi a rischio la validità dell’intero concorso. Il MIUR non ha pubblicato le graduatorie, per questo centinaia di studenti e studentesse hanno chiesto che vengano rese pubbliche.

 

 

La situazione italiana è marginale, infatti il nostro Paese risulta essere in fondo alla lista per l’impiego di fondi dedicati alla ricerca e all’istruzione, due ambiti oggi più che mai, importanti e necessari. Trascurare università e ricerca è sintomo di un paese che non ha intenzione di investire nel futuro, per questo migliaia di studenti e studentesse tentano la strada del dottorato all’estero. 

In Italia i fondi sono pochi e mal gestiti, solo l’1,4% del PIL è destinato alla ricerca e per fronteggiare la carenza di medici sono state predispose 1.200 borse di studio per la specializzazione medica, ma per la CISL Medici ne servirebbero almeno 11 mila per formare il nuovo personale medico. 

Si è sperato che la difficile situazione dovuta al Covid facesse capire l’estrema importanza di investire in salute, ricerca e università, ma le graduatorie delle di Medicina ci fanno presto piombare alla realtà: la proprietà non è ancora l’istruzione, ma è necessario che lo diventi presto. 

 

Ylenia Covalea

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Come stanno reagendo le università del torinese al rientro sui banchi degli studenti e delle studentesse?

 

È da poco cominciato il nuovo anno accademico 2020/2021 e le università italiane si sono preparate al ritorno in sicurezza di studenti e studentesse. 

Tra incertezze, didattica online e in presenza, ogni ateneo si è mosso in autonomia, ma come hanno reagito le università del torinese al rientro sui banchi durante l’emergenza Covid? 

 

Vista la situazione incerta, le iscrizioni all’università sono state minori?

No. La situazione d’emergenza dovuta al Covid non ha fermato le immatricolazioni, è il caso del Corso di Laurea in Architettura del Politecnico di Torino: conta un + 15 % (mole24.it) di immatricolazioni.

 

Come si stanno organizzando gli atenei torinesi?

All’Università di Torino e al Politecnico le aule hanno capienza ridotta per rispettare le distanze, basta prenotare con anticipo il posto in aula. La Career Week annuale del Politecnico, solo per quest’anno, diventa Digital: webinar, incontri e offerte di lavoro per studenti e studentesse direttamente dal computer di casa. 

La modalità prediletta per la didattica è comunque quella mista: lezioni in presenza e online. Al Politecnico, in questi mesi di lockdown e graduali riaperture, i corsi erogati da remoto sono stati più di 800, con quasi 30 mila studenti e studentesse a seguirli, gli esami svolti sono stati più di 4 mila e più di mille le discussioni di Laurea sostenute (coronavirus.polito.it).

 

 

L’Accademia Albertina di Belle Arti e il Conservatorio Giuseppe Verdi hanno valutato la modalità mista: in presenza per i corsi laboratoriali con gruppi ristretti di student* e le lezioni teoriche, invece, erogate online. Questo lo scenario delle AFAM (Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica) che ha visto negli ultimi anni un continuo e costante taglio dei fondi per la didattica e l’implementazione delle strutture dedicate.

Questa pandemia ha svelato un vaso di Pandora, evidenziando così un forte divario digitale: il continuo ridimensionamento di fondi economici dedicati all’istruzione ha creato differenze disarmanti: da un lato la tecnologia ha permesso a milioni di student* in tutta Italia di non abbandonare gli studi, ma altr* si sono stati tagliati fuori per mancanza di apparecchiature adeguate allo svolgimento delle attività online. 

 

Trasporto pubblico: come si raggiungerà l’università? Una scelta ecologica necessaria.

Secondo l’Indagine nazionale sulla mobilità casa-università al tempo del Covid-19 realizzata dalla Rete delle Università per lo Sviluppo Sostenibile, il trasporto pubblico sarà il settore che più pagherà le conseguenze di questa pandemia, si preferirà quindi l’automobile, lo spostamento a piedi, il monopattino o la bici. Studenti e studentesse preferiranno quindi altre soluzioni all’utilizzo di mezzi pubblici, spesso gremiti di passegger*, dove il distanziamento sociale è difficile, se non impossibile.

 

Ylenia Covalea

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La eco di Primo Levi deve risuonare ancora

Cosa significa non poter studiare, affermarsi, emanciparsi? Ora viviamo un particolare momento storico fatto di lezioni in remoto e aule ad accesso limitato; il diritto allo studio è (quasi) sempre riconosciuto, ma durante il fascismo era negato.

Abbiamo parlato di Erasmo da Rotterdam, Antonio Gramsci, Rita Levi Montalcini. Cosa accomuna questi personaggi straordinari? Sono tutti fiori all’occhiello dell’Università degli Studi di Torino. Oggi parliamo di Primo Levi, la sua storia è peculiare perché si laurea nel bel mezzo dell’entrata in vigore delle leggi razziali in Italia, cosa significava essere ebreo a Torino durante il fascismo?

Continua così la nostra rassegna alla scoperta della storia dell’Ateneo torinese, tra seicento anni di storia e date importanti. Primo Levi si iscrive al Liceo classico Massimo d’Azeglio, rinomato per aver aver ospitato tra le cattedre svariati professori fortemente antifascisti prima dell’epurazione fatta dalle leggi razziali. Un fatto interessante è la conoscenza di Cesare Pavese; Primo viene a contatto con il celebre scrittore proprio al d’Azeglio, Pavese infatti è il suo professore d’italiano in prima ginnasio. Si iscrive alla facoltà di Chimica l’anno prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali, ma Primo Levi riesce comunque a concludere i suoi studi con lode in Chimica, discutendo la tesi nel 1941. Il suo diploma di laurea riporta la svilente precisazione: “di razza ebraica”. Questo lo porta a dire si essersi impegnato duramente nello studio perché l’ambiente universitario torinese fascista lo faceva sentire uno straniero, uno studente diverso.

L’anno dopo, a Milano, viene a contatto con gli ambienti antifascisti militanti ed entra a far parte del Partito d’Azione clandestino, lui che ha vissuto con un padre costretto ad iscriversi al partito, lui che era stato prima balilla e poi avanguardista, “coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione”, dirà poi in Se questo è un uomo. 

L’8 settembre il governo di Badoglio annuncia l’armistizio, ma la guerra procede, infatti di lì a breve Levi viene prima portato nel campo di prigionia Carpi-Fossoli e poi ad Auschwitz, in Polonia, dopo aver fatto parte di un gruppo partigiano in Val d’Aosta. 

Dopo la liberazione torna a Torino, lavora come chimico, incontra Lucia Morpurgo, quella che sarà la sua futura moglie, e scrive. Un chimico che scrive? Ha molto da raccontare, decide così di raccogliere quei pensieri e quelle vicende che lo stanno tormentando: nasce Se questo è un uomo (1944-1947). Lo presenta alla casa editrice Einaudi che però lo rigetta in prima istanza, pubblicato quindi in tiratura limitata da De Silva; il libro cardine sulle atroci testimonianze dei lager è un flop. È il 1956 quando Se questo è un uomo viene riproposto e quindi pubblicato dall’Einaudi, che non smetterà mai di ristamparlo. 

Italo Calvino definisce il libro come “pagine di autentifica potenza narrativa” (Italo Calvino in Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 2005), Primo non smette di scrivere e ricevere consensi. Vince il Premio Strega nel ’79 con La chiave a stella. 

Un chimico che scrive, racconta, analizza. Perché la sua formazione universitaria in campo scientifico è così importate? Lo si legge tra le sue pagine: il pensiero legato all’empirismo si riflette nei testamenti di Primo Levi, non ha mai cercato di impressionare, non ha mai scritto per i lettori, lo ha fatto per sé stesso. Un atto di catarsi pura ed essenziale, un esempio di come la scrittura sia liberazione della mente. Un atto liberatorio da quelle vicende che lo inseguono, impossibili da rilegare tra le pagine di un libro e chiudere per sempre, ma forse sussurrate a chi sa leggere tra le righe. 

 

Parole che hanno una forte eco.
Da Levi c’è molto da imparare.

 

 

(Fonte: Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 2005.)

Ylenia Covalea

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Le testate giornalistiche spesso tendono a precisare che l’ingegneria è anche “roba da ragazze”, altre invece pongono la domanda direttamente ai lettori e alle lettrici: “l’ingegneria è una lavoro per ragazze?” Ma davvero si pensa, nel 2020, che l’ingegneria non sia una “questione” della quale possa occuparsi una donna?

 

Venerdì vi abbiamo raccontato la storia della prima donna Ingegnere in Italia, quando le ragazze iscritte all’università erano poco più di 200. Oggi vogliamo invece sviscerare la situazione delle iscrizioni alle discipline STEM in Italia. Qual è la situazione attuale nel mondo accademico? Perché spesso si parla di un “pregiudizio” che vorrebbe la donna “rilegata” in materie educative e non tecniche? Diamo uno sguardo ai dati: nel 2019 la presenza femminile nel Corso di Laurea in Ingegneria a Torino ha visto un aumento del + 2% rispetto alla media maschile, arrivando a toccare quota 26% del totale (www.lastampa.it). Il quadro è chiaro, le donne ad Ingegneria sono meno degli uomini e la situazione dell’Ateneo piemontese è la più florida d’Italia. 

È arrivato il momento di smettere di pensare che possano esistere corsi di laurea e lavori adatti solo agli uomini. 

Sappiamo che gli strascichi di una cultura patriarcale si rigettano all’interno degli ambiti più disparati, da quelli accademici a quelli lavorativi, quindi si, fino a non troppo tempo fa l’opinione generale voleva la donna costretta al solo lavoro di cura o impiegata in ambiti prettamente educativi. La storia delle donne nella scienza e nella tecnologia è sicuramente più recente rispetto quella dei colleghi maschi, infatti quando le ragazze studiavano economia domestica Enrico Fermi progettava il primo reattore nucleare, quando le donne dovevano imparare ad essere mogli devote e madri perfette, due scienziati stavano lavorando alle ricerche sulla struttura a doppia elica del DNA. Potremmo andare avanti all’infinito. Alle donne è stato permesso di frequentare le università in tempi non troppo antichi, quando Emma Strada si laureava al Politecnico di Torino, in tutta Italia le iscritte all’università risultavano essere solo 250 — era il 1908. La percentuale di affluenza femminile nei settori tecnico – scientifici delle aree STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) risulta essere il 44% (Anno 2016 – Miur), ben undici punti in più rispetto la media, per esempio, del Regno Unito.

Forse il dato più preoccupante è la differenza di salario tra uomo e donna. 

L’Italia presenta divari disarmanti, per l’Eurostat il nostro Paese si posiziona al 17° per Gender Pay Gap, in una classifica composta da 24 stati (www.repubblica.it). Nel nostro Paese le donne laureate in materie tecniche e scientifiche guadagnano il 20% in meno dei colleghi (www.larepubblica.it), spesso sono portate ad accettare lavori meno qualificati rispetto alla loro formazione, part-time e stipendi non all’altezza delle loro capacità. La situazione di una carenza di donne ingegnere non è troppo diversa da quella di donne Giudici della Corte di Cassazione, in Europa sono il 37%, in Italia solo il 26%.

Spesso si riduce la questione ad un pensiero diffuso: le ragazze sono portate a pensare, colpa di anni di sessismo in ambito lavorativo, di “non essere adatte” alle discipline tecniche, ma siamo così sicur* che sia una credenza diffusa tra le studentesse? Davvero le donne sono le prime a pensare di non essere adatte ad un lavoro reputato per anni prerogativa maschile? Lasciamo la parola ad Agnese, una neolaureata in Ingegneria al Politecnico di Torino

Parlaci un po’ della tua formazione universitaria

A: Nel complesso definirei la mia esperienza al Politecnico positiva, ho conosciuto una realtà nuova in un ambiente diverso da quello a cui ero abituata, ma in cui mi sono subito trovata bene. Non nego che ci siano stati momenti difficili, ma non ho mai preso seriamente in considerazione l’idea di mollare perché, nonostante la mole di lavoro che a volte mi è sembrata insormontabile, sono riuscita quasi sempre a raggiungere gli obiettivi che mi sono prefissata e, nell’insieme, i corsi che ho seguito mi hanno sempre interessata.

Cosa ti ha spinta ad iscriverti proprio ad Ingegneria?

A: L’ingegneria non è una mia passione da sempre, ma ho cominciato a interessarmi a questo ambito verso la metà delle scuole superiori, grazie ad un amico di famiglia ingegnere edile. Inizialmente pensavo che avrei intrapreso anche io quel percorso ma, con il tempo, ho scoperto il mondo delle energie e ho deciso di iscrivermi ad Ingegneria Energetica. Mi sono da poco laureata in triennale e ho deciso di proseguire con la magistrale, dove sono sicura che affronterò temi più interessanti e specifici, che mi permetteranno di avere una conoscenza più approfondita della materia.

Le testate giornalistiche parlano di un radicato “pregiudizio” che vorrebbe rilegare la donna in un ambito lavorativo meno tecnico, come quello educativo o della cura della persona, ti è mai capitato di sentire questo pregiudizio durante il tuo percorso universitario?

A: Fortunatamente non l’ho mai sperimentato in prima persona, ma è una cosa che si percepisce spesso sia in ambito lavorativo che in ambito scolastico, già a partire dalle scuole superiori, dove si assiste a una netta divisione tra gli indirizzi considerati più “femminili” e quelli più “maschili”.

Il Gender Pay Gap lavorativo, specie in una professione a maggioranza maschile, ti spaventa?

A: Non credo di sentirmi spaventata quanto più demoralizzata dal fatto che un uomo possa guadagnare più di una donna per lo svolgimento dello stesso compito. La mia speranza è, certamente, quella di trovarmi un giorno in un ambiente lavorativo che riconosca l’impegno di ognuno indipendentemente dal sesso e che nei prossimi anni questa possa diventare la tendenza in tutti gli ambiti, non solo in Italia ma anche all’estero.

La testimonianza di Agnese è importante per capire che no, le ragazze non sono così convinte che le materie STEM non siano adatte a loro, questo pregiudizio è forse presente più tra coloro che permettono esista una differenza salariale tra uomo e donna, non certo tra le ingegnere. La strada è lunga, molte università stanno virando verso l’impegno di destinare la propria offerta formativa alle future professioniste STEM, grazie a campagne e progetti promossi da Atenei quali il Politecnico di Torino e quello di Milano. Ci auguriamo che possa essere una tendenza sempre più diffusa per contrastare le poche iscrizioni, senza però dimenticarci che il Gender Pay Gap svolge un ruolo fondamentale nella scelta universitaria delle giovani e future studentesse.  È un divario salariale diffuso che deve essere abbattuto dall’interno e dell’esterno, l’impegno delle istituzioni deve essere costante e volto al superamento di una percentuale che scredita il nostro Paese nel mondo. 

Ylenia Covalea

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La torinese Emma è la prima donna laureata in Italia in Ingegneria Civile al Politecnico di Torino: era il 1908 e le donne non avevano diritti

 

Senza diritti, futuro e lavoro; solo il matrimonio ad innalzare, in maniera teorica, la loro condizione di nascita. L’opinione pubblica, durante i primi anni del Novecento italiano, si sta dirigendo verso la lenta, ma graduale, conquista del diritto di voto per le cittadine italiane, che avverrà più di quarant’anni dopo, con il primo referendum che vede partecipare anche le donne. Torniamo indietro agli anni in cui le ragazze negli studi scientifici e tecnici erano pressoché inesistenti; solo nel 1905 viene permesso alle donne di insegnare alle scuole medie; c’è voglia di emancipazione e di ottenere un ruolo sociale diverso da quello di moglie e madre. In questo difficile contesto storico fa la sua comparsa una giovane ragazza di Torino che vuole diventare ingegnere: Emma Strada. Si iscrive al Politecnico di Torino a diciannove anni per conseguire la laurea nel 1908, ma non era così comune farlo, specie per una ragazza. Nei primi anni del Novecento risultano essere iscritte all’università 250 donne in tutta Italia (www.storiaxxisecolo.it), Emma è una delle poche a frequentarla, ma sarà di lì a breve, anche una delle poche donne in Europa a conseguire un titolo di studio in Ingegneria Civile. All’estero ci sono le vite e i lavori esemplari di Sarah Guppy; ingegnere inglese che inventa un innovativo sistema per costruire ponti sospesi nei primi anni dell’Ottocento e Verena Holmes, ingegnere meccanico inglese, prima donna eletta all’Institution of Mechanical Engineers nel 1924 e all’Institution of Locomotive Engineers nel 1931, solo per citarne alcune.

È il 7 settembre 1908 quando esce un articolo sul quotidiano La Stampa:

Emma Strada, sabato scorso, al nostro Istituto Superiore Politecnico ha conseguito a pieni voti la laurea in ingegneria civile. La signorina Strada è così la prima donna-ingegnere che si conti in Italia e ha appena altre due o tre colleghe all’estero.

Non era semplice per una donna emergere in ambiti come l’ingegneria, la scienza e le materie tecnologiche, figuriamoci farsi “strada” in una carriera da sempre reputata prerogativa maschile, se n’è addirittura parlato sulla stampa torinese; all’epoca una laureata faceva notizia.

Emma nasce a Torino nel 1884 e decide di ripercorrere le orme del padre che ha uno studio tecnico di progettazione, con il quale lavora ed eredita i progetti. Lavora tra la Valle d’Aosta, la Calabria, la Liguria e il Piemonte: tra i suoi primi progetti figura una galleria di ribasso per drenare l’acqua in Valle d’Aosta, l’anno successivo alla sua laurea, nel 1909, si trasferisce in Calabria, dove si occupa della costruzione della ferrovia automoto-funicolare di Catanzaro e della costruzione del ramo calabrese dell’acquedotto pugliese. Per sei anni è l’assistente del Professor Pagliani, docente e direttore del Gabinetto di Igiene Industriale presso l’Università di Torino.

Progetta in Val d’Aosta la manica del Grand-Hôtel di St-Vincent e la funicolare, si sposta in Liguria per l’ampliamento del Palazzo Municipale di Varazze e si occupa di alcune abitazioni, anche nel torinese, dirigendo la costruzione dell’Asilo infantile della Crocetta. Nel 1957 con Anna Enrichetta Amour, Laura Lange, Ines del Tetto, Lidia Lanzi, Adelina Racheli, Vittoria Ilardi e Alessandra Bonfanti, istituisce l’AIDIA – l’Associazione Italiana Donne Ingegnere e Architetto – con l’intento di promuovere e valorizzare il lavoro femminile nel campo della scienza e delle tecniche, per poi lasciarci nel 1970, all’età di ottantasei anni.

I suoi progetti sono passati in sordina, ma ha sicuramente svolto un ruolo fondamentale nello scardinare un’idea diffusa nel 1900; le donne ingegnere non esistono. L’ha fatto in maniera del tutto naturale, studiando, lavorando e facendo carriera in un ambiente colmo di pregiudizi che nel Novecento vuole la donna riposta al lavoro di cura, in casa; (in)consapevolmente è diventata un esemplare simbolo di emancipazione e riappropriazione di un ruolo, da sempre declinato al maschile.

(fonte: didattica.polito.it)

Ylenia Covalea

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Seicento anni di storia tra antifascismo e Premi Nobel

 

Nel nostro ultimo articolo abbiamo ripercorso la storia dell’Università di Torino, soffermandoci principalmente sulle figure di spicco per il nostro Paese che l’hanno frequentata. Siamo arrivati all’anno 1918, quando l’Italia è impegnata con le manovre belliche al fronte e Giuseppe Saragat, futuro Presidente d’Italia, si laurea in Economia a Torino.

 

Con la Riforma Gentile del 1923 quella di Torino diventa una delle dieci università gestite e finanziate direttamente dallo Stato.

Dal 1925 la resistenza è impegnata a combattere contro il fascismo, che prende sempre più piede all’interno dell’Ateneo. Ne consegue quindi un periodo culturale di fiorente antifascismo, con figure quali Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Leone Ginzburg, Massimo Mila, Vittorio Foa, Giorgio Agosti, Dante Livio Bianco e Cesare Pavese.

Tra 1934 e 1935 conseguono la laurea due importanti Premi Nobel, prima Salvatore Luria, poi Rita Levi-Montalcini, entrambi laureati in Medicina e Chirurgia. 

Il torinese Luria vince il Premio Nobel per la Medicina nel 1969, grazie alle sue rivoluzionarie ricerche rispetto la moltiplicazione e la mutabilità dei virus. Non è solo un brillante scienziato che collabora fianco a fianco con Enrico Fermi, ma anche personalità impegnata politicamente: convinto nei rischi dell’impiego atomico e occupato politicamente in una campagna contro la guerra in Vietnam, a Luria vengono negati i fondi per finanziare i suoi studi nel 1969, in America, dove vive e lavora, per le sue idee controcorrente. 

La vita di queste poliedriche personalità che donano lustro alla città di Torino sono complesse e travolgenti, difficili da riassumere in poche righe, ma è doveroso citare alcuni eventi che hanno reso Rita Levi-Montalcini tra le figure più interessanti del nostro Paese. La Senatrice a vita ha fatto la storia quando, negli anni Cinquanta, scopre il fattore di accrescimento della fibra nervosa, che le vale il Premio Nobel per la Medicina nel 1986. La Montalcini è anche ricordata come forte icona di emancipazione femminile per essere la prima donna ammessa alla Pontificia Accademia Delle Scienze. Perseguita durante le leggi razziali in quanto di fede ebraica, Rita Levi-Montalcini si rifugia con la famiglia in Belgio per poi tornare a Torino, sua città natale, quando nel 1940, prepara un vero e proprio laboratorio casalingo per non lasciare incompiute le sue ricerche scientifiche. 

Erano tempi difficili per una scienziata, specie se donna ed ebrea. Dichiara di esser vissuta in “un mondo vittoriano, nel quale dominava la figura maschile e la donna aveva poche possibilità” ; “sapevo che le nostre capacità mentali – uomo e donna – son le stesse: abbiamo uguali possibilità e differente approccio.” (Che tempo che fa, Intervista a Rita Levi-Montalcini, Rai Uno)

Vi vogliamo lasciare con una frase della Levi-Montalcini, nella speranza che possa essere d’ispirazione per tutti e tutte, una frase che sa di libertà:

 

Da bambine mio padre ripeteva a mia sorella e a me che dovevamo essere libere pensatrici. E noi siamo diventate libere pensatrici prima ancora di sapere cosa volesse dire pensare.”

(Rivista Club Tre, Intervista a Rita Levi- Montalcini sulla, Novembre 2008, p. 61)

 

(fonte: www.unito.it)

Ylenia Covalea

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